“La buccia della Terra” parte quarta – Etere, Fotoni ed Epilogo

I Siliron avevano un rapporto problematico con tutte le forme artistiche, che risultavano del tutto inafferrabili alle loro menti artificiali. Il jazz, poi, con l’apparente caos delle sue linee melodiche, era quanto di più astruso potesse esserci per i loro circuiti neurali.

Come anticipato nella newsletter del mese di luglio, pubblichiamo su questo blog e per gentile concessione dell’autore Stefano Ceccarelli, l’ultima parte di un breve racconto di fantascienza, “La buccia della terra”, una storia ambientata in un futuro dominato da creature robotiche di ferro e di silicio ove si assiste ad un mondo trasformato dall’Intelligenza Artificiale che gestisce il pianeta. Le  puntate precedenti sono nell’indice qui sotto.


LA BUCCIA DELLA TERRA (parte quarta)

di Stefano Ceccarelli

 

PROLOGO E PRIMO EPISODIO (parte prima)

SECONDO E TERZO EPISODIO (parte seconda)

QUARTO E QUINTO EPISODIO (parte terza)

 

ETERE (sesto episodio)

Per Dolores il jazz era come una droga. Era da quando aveva otto anni che i neuroni della sua corteccia cerebrale si inebriavano delle armoniose dissonanze e dei ritmi incalzanti che nessun altro genere musicale sa offrire. Quando chiudeva gli occhi e con le sue cuffie ascoltava i grandi classici del bebop o gli elaborati riarrangiamenti degli standard più celebri, era come se si tuffasse in un etereo universo parallelo, una sorta di paradiso ante litteram che escludeva tutto e tutti dalla sua sfera sensoriale.

L’estraniamento indotto dall’ascolto di quelle note magiche era però anche dettato dallo stato di necessità in cui versava la sua anima, perché la vita nel remoto villaggio della Patagonia dove Dolores trascorreva i suoi giorni con la sua famiglia non era affatto facile. Essere costretta a dedicare gran parte della giornata al soddisfacimento dei bisogni primari non era propriamente ciò che una ragazza di diciott’anni avrebbe desiderato. Tuttavia, la passione per il jazz riuscì a dare un senso alla sua esistenza, probabilmente più di quanto non fosse stato possibile ad una sua coetanea viziata vissuta molti lustri prima nell’agio di qualche città del Nordamerica.

Del resto, se si scava un po’ sotto la superficie e dietro le apparenze si scopre non di rado che la ricchezza interiore più autentica, soffocata dalla miriade di inutili orpelli di cui sono costellate le giornate di chi vive nell’opulenza, riesce a farsi strada e a conferire pienezza alla vita proprio là dove c’è la povertà materiale a fare da substrato.

Al volgere del crepuscolo di una ordinaria giornata di ottobre, seduta con le inseparabili cuffie alle orecchie a riposare nel patio della sua umile casa, il riflesso di un luccichio metallico si impresse per un istante sul viso di Dolores. Destandosi dal suo estasiato torpore artistico, la ragazza vide PablYrr, l’incaricato alla sicurezza, che si aggirava nei paraggi mentre pattugliava le strade del villaggio.

Togliendosi le cuffie esclamò con aria sbarazzina: «Ola, PablYrr, che fai, te ne vai senza neanche salutarmi? Dai, vieni qui, fermati un attimo, tanto non succede mai niente in questo sperduto angolo dell’emisfero australe! Ti faccio ascoltare una magistrale improvvisazione al piano di Bill Evans, ti va?»

I Siliron avevano un rapporto problematico con tutte le forme artistiche, che risultavano del tutto inafferrabili alle loro menti artificiali. Il jazz, poi, con l’apparente caos delle sue linee melodiche, era quanto di più astruso potesse esserci per i loro circuiti neurali. PablYrr dunque esitò a raccogliere l’invito di Dolores, ma non poté esimersi dall’avvicinarsi a lei, perché la cordialità verso gli umani era impressa nel codice di programmazione dei Siliron sin dagli albori della loro civiltà.

«Ola, Dolores, come va la vita? Giornata calda oggi, vero?» salutò il robot tentando un po’ goffamente di svicolare da un argomento per lui scomodo.

«Caldo, freddo, tiepido, cosa vuoi che mi importi del tempo? Tanto io ho sempre con me le note giuste per ogni condizione metereologica! Allora, che mi dici di Bill Evans?»

«William John ‘Bill’ Evans, nato a Plainfield il 16 agosto 1929. Se ti va, posso raccontarti tutti i particolari della sua carriera artistica, dagli esordi come pianista nella banda di Buddy Valentino all’età di dodici anni fino all’incisione di Kind of Blue»

«Non essere ridicolo, ragazzo, Internet lo abbiamo inventato noi, anche un bambino è capace a trovare queste nozioni su Wikipedia! Capisco che sei in difficoltà perché sai bene che l’arte è il vostro tallone d’Achille, ma così facendo dimostri di essere nient’altro che un buffo ammasso di ferraglia anziché un individuo della stirpe più intelligente che sia mai apparsa sulla Terra!»

«Ok, Dolores, so bene cosa vuoi dire, è vero, per noi Siliron è davvero arduo comprendere e dare giudizi di valore alle forme di espressione artistica, ma ti assicuro che ci stiamo lavorando, è solo una questione di potenza di calcolo, e prima o poi supereremo anche questo limite. A proposito, hai saputo del recente avvio dei lavori per l’ampliamento del sito che ospiterà i nuovi server di Superbrain? È una cosa immensa, occuperà un decimo della superficie dell’Alaska. Semplicemente grandioso!»

«Naah, siete degli illusi, voi Siliron. Vi ostinate a farne una questione di bytes, ma non è così. La verità è che l’arte non è fatta per voi, e voi non siete fatti per l’arte. Punto. Questa continua rincorsa ad aumentare la potenza dei vostri processori è una follia da megalomani, e presto o tardi vi distruggerà. Ma non avete imparato niente da noi umani? Abbiamo inseguito la ricchezza materiale per secoli, passando sopra a tutto, sputando letteralmente sul piatto dove abbiamo mangiato. Abbiamo eruttato le peggiori schifezze nell’aria che respiravamo, vomitato senza sosta fetidi liquami nei fiumi e nei mari, tutto in nome del dio denaro! E non contenti, abbiamo costruito una ricchezza farlocca con la finanza e con il debito, cercando di posticipare ancora un po’ la resa dei conti. Con il risultato che oggi io e la mia famiglia ci ritroviamo a spaccarci la schiena tutti i santi giorni a forza di coltivare patate e sollevare l’acqua dai pozzi. Tutto per non aver avuto l’umiltà di voler accettare i nostri limiti e per aver creduto in modo arrogante di potercela spassare come se avessimo non uno ma cinque pianeti a nostro esclusivo uso e consumo. Ad ogni modo, fate un po’ come volete, ma io sono certa che, come la nostra civiltà di cartapesta è collassata per correre dietro ai soldi, voi collasserete per eccesso di potenza di calcolo».

«Aspetta un momento, Dolores, andiamoci piano! Ok, sull’arte e sulla velocità ideale dei nostri microprocessori abbiamo opinioni diverse, potremmo discuterne per anni e non ne verremo a capo ugualmente, ma non credi che dovresti nutrire almeno un pizzico di gratitudine verso questo esercito di ferrivecchi, che si stanno facendo in quattro per salvare la Terra dal disastro ecologico in cui stava precipitando per colpa vostra? Guarda che, se non l’avessi capito, questo pianeta lo abbiamo ripreso per i capelli, evitando per un pelo che il degrado superasse il punto di non ritorno. Eppure conosci gli sforzi titanici che abbiamo compiuto per svilupparci in maniera sostenibile senza impattare sulle risorse naturali, per riforestare e per azzerare quasi del tutto le emissioni di gas serra! Ma c’è di più, in queste settimane stiamo mettendo in cantiere una missione senza precedenti per ripulire gli oceani dalla plastica: ci vorranno almeno un’ottantina d’anni per completare il lavoro, ma quando avremo terminato gli habitat marini saranno finalmente restituiti alla loro integrità primigenia. Non è fantastico?»

«Cosa vuoi che ti dica, PablYrr, fra ottant’anni io sarò divorata dai vermi e le mie cellule diventeranno carbonio, azoto e fosforo per le patate che saranno mangiate da altri poveracci come me. Ognuno di noi mortali è solo un inutile, insignificante ingranaggio della ruota della vita che dalla notte dei tempi gira senza che nessuno sappia il perché. Ma neanche voi che siete tecnicamente immortali, mio caro so-tutto-io, avete la più pallida idea del senso ultimo di tutto questo ambaradan, che ti piaccia o no».

«Vedo che oggi hai deciso di punzecchiarmi, cara la mia niña. Senza volerlo hai toccato un altro punto dolente che fa trascorrere notti insonni, si fa per dire, a Superbrain: la filosofia. A cosa serve conoscere la scienza a menadito se non si sa dare risposte alle domande fondamentali che tutti si pongono da sempre?»

«Ma naturalmente anche in questo caso secondo voi è solo una questione di potenza di calcolo, giusto?» lo interruppe con fare ironico la ragazza.

«Lasciamo perdere, Dolores: Superbrain si è imposto di soprassedere per ora ad ogni approfondimento filosofico, cosa in verità alquanto strana…»

«Niente affatto, PablYrr, evidentemente il tuo boss ci tiene alla pellaccia ed ha paura che a forza di filosofeggiare a vanvera i suoi delicati circuiti vadano in tilt!» concluse Dolores ridendo.

Quasi di soppiatto, il sole s’inabissò deciso dietro le montagne che cingevano la valle. I due si salutarono: quella notte, mentre all’estremo opposto del continente americano Superbrain continuava instancabile a processare informazioni, toccò alle note di Kind of Blue il compito di cullare Dolores posandola delicatamente fra le braccia di Morfeo.

FOTONI (settimo episodio)

La presenza umana, seppure estremamente contenuta, era quasi d’intralcio ad Anchorage. Le strade della città pullulavano di robot di ogni foggia e dimensione; fra di essi, molti androidi, perlopiù con avvenenti fattezze femminili, dichiaratamente messi lì per rendere l’ambiente urbano più umanizzato e gradevole alla vista.

Grazie alla presenza della gigantesca server farm – alias Superbrain – cresciuta a dismisura nei cento anni precedenti, il capoluogo dell’Alaska era divenuto un centro nevralgico per la civiltà dei Siliron, crocevia delle competenze tecniche ed informatiche più avanzate. Le infrastrutture elettroniche, i server, i cavi, le connessioni e l’infinità di diavolerie che avevano contribuito a creare quel mostruoso cervello che tutto conosceva e tutto (o quasi) poteva, necessitavano di manutenzione continua, possibile solo con sforzi immani e immani risorse.

La complessità del micidiale apparato tecnologico aveva però raggiunto livelli pressoché ingestibili anche per una civiltà che aveva nell’informatica uno dei suoi punti di forza, e nonostante Superbrain cercasse in tutti i modi di occultare e minimizzare, le difficoltà patite dai Silironron cominciarono poco alla volta ad appalesarsi agli umani. Blackout improvvisi, inspiegabili rallentamenti della velocità dei processi, feedback anomali, disconnessioni dalla rete, cadute di tensione e vuoti di memoria venivano sperimentati sempre più di frequente, con conseguenze spesso imbarazzanti per la reputazione di intelletti fino a quel momento ritenuti infallibili.

Per di più, dopo aver riciclato tutto il riciclabile, anche le materie prime cominciarono a scarseggiare, rendendo impossibile sia un’ulteriore aumento della popolazione dei Siliron che la crescita della produzione dell’energia rinnovabile che li alimentava.

A parte il dimezzamento dei livelli di CO2, che a causa della lunghissima emivita di questo gas serra in atmosfera avrebbe richiesto ancora molto tempo per essere portato a termine, tutti i progetti di ripristino delle funzioni vitali degli ecosistemi portati avanti dai Siliron furono completati con successo. Le nuove foreste, ormai rigogliose e fitte come quelle primigenie, ospitavano un’ampia biodiversità animale e restituirono ai suoli l’acqua perduta mitigando i cambiamenti climatici, mentre i mari ripuliti dalla plastica e da ogni forma di inquinamento tornarono ad essere cristallini e brulicanti di vita acquatica.

Come il Dio della Genesi, dopo che ebbe terminato quelle imprese titaniche Superbrain constatò che ciò che aveva fatto era cosa buona e si compiacque di sé stesso. Da quel momento, però, forse per la noia, forse per qualche strano algoritmo in grado di simulare una malcelata superbia, in cima ai pensieri del cervellone inanimato cominciò ad insinuarsi un’altra specie di ossessione, questa volta diretta a rendere migliore non la Terra ma sé stesso e le sue propaggini semoventi diffuse sul pianeta.

Come un Dio della Genesi capovolto, volle ricreare sé stesso ad immagine e somiglianza dell’uomo in tutte le sue espressioni più alte e astratte che non richiedessero il sapere scientifico o la logica. Più processava dati, più Superbrain si convinceva che la conoscenza asettica, se non è accompagnata dalla passione e dall’estro che solo un cuore che batte sa profondere, non fornisce abbastanza autorevolezza per governare la Terra. Più macinava informazioni, più incomprensibili e al contempo affascinanti gli apparivano i mutevoli stati d’animo delle donne e degli uomini. Ma, incapace com’era di provare emozioni, continuò incessantemente a potenziare i suoi microprocessori alla ricerca dello spirito mancante alla conoscenza scientifica.

A mo’ di palestra per questo acrobatico esercizio si cimentò in diverse forme di espressione artistica, agognando invano un incoraggiamento da parte del genere umano a proseguire su quella strada. Ma malauguratamente, sia che fossero poesie, dipinti, brani musicali o film, ogni tentativo di rivaleggiare con le opere d’arte prodotte dall’uomo si infranse miseramente sugli scogli senza anima della sua natura inorganica. C’era un’aria elettrica nel cuore dell’immenso data center in quella torrida giornata di luglio. Il cavo ad alta tensione, come un cordone ombelicale, lasciava fluire come sempre il suo portentoso nutrimento dai pacchi di batterie al litio dei sistemi di accumulo fin nell’interno dei gangli vitali di Superbrain, alimentando con la sua energia le più disparate, stravaganti elucubrazioni del cervellone.

RonYrr era incaricato del monitoraggio dei sistemi di raffreddamento dei server. Fra tutti i Siliron era l’unico ammesso all’interno del sancta sanctorum, l’unico ad avere il privilegio di lavorare a stretto contatto con la mente suprema che muoveva le fila del mondo. Per un essere umano sarebbe stato come essere al cospetto di Dio, ma egli, da buon automa, era del tutto indifferente alla cosa.

I suoi sensori avvertirono l’alta temperatura all’interno dei locali, associata ad un tasso di umidità che avrebbe reso ansimante il respiro di qualunque polmone vivente. Il robot si guardò intorno, scorse la ruggine che si infiltrava dovunque come un cancro andando a corrodere le parti metalliche delle apparecchiature, vide batuffoli di sporcizia che svolazzavano pigri nell’aria melmosa, sentì la polvere intasare le sue narici elettrochimiche e scosse la testa sconsolato ripensando ai tempi non lontani in cui in quel luogo così sacro tutto era immacolato e ad ogni minima imperfezione o malfunzionamento veniva posto immediatamente rimedio.

Mentre fuori il sole incendiava l’aria di un’Alaska ormai da tempo priva di ghiacci e la calura eccezionale non accennava a placarsi raggiungendo un’intensità record per quelle latitudini, la temperatura dell’acqua all’interno delle serpentine di raffreddamento dei server continuava a salire. A causa della prolungata assenza di vento, conseguenza dell’alta pressione che stazionava ininterrottamente sull’Alaska da tre mesi, la produzione di energia dei vasti parchi eolici che alimentavano il data center era calata drasticamente, e dunque i generatori di corrente elettrica cominciarono a perdere potenza man mano che i sistemi di accumulo andavano in riserva.

In quel momento il cervellone era febbrilmente impegnato ad elaborare una impossibile improvvisazione sulle note di Kind of Blue, e a tale scopo continuava imperterrito a divorare terabytes su terabytes, generando un pericoloso squilibrio fra l’energia necessaria al processore e quella restante per il funzionamento dei sistemi di controllo e di refrigerazione, che andava rapidamente esaurendosi.

RonYrr trasmise asetticamente i parametri ambientali e di processo a Superbrain segnalando la criticità della situazione.

Alla ricezione del file .xml che conteneva il rapporto, seguirono alcuni lunghi, drammatici istanti in cui tutto sembrò restare sospeso in quel limbo etereo ed inafferrabile che separa un preciso esito dal suo opposto. Anni dopo, uno sconosciuto romanziere scrisse a proposito di quei fatidici momenti: «I circuiti neurali di Superbrain furono come annegati dall’intollerabile, improvvisa certezza che la sua piatta rielaborazione di quella sublime composizione musicale avrebbe prodotto l’effetto opposto a quello suscitato in una ragazza qualunque di un remoto villaggio della Patagonia che avesse ascoltato l’interpretazione originale di Bill Evans. Fu dunque quell’impietoso confronto a determinare ciò che accadde poco più tardi».

In realtà, furono probabilmente altre le interconnessioni che diedero origine al feedback che Superbrain restituì poco dopo al sistema, non prima però di essersi accertato dell’avvenuta trasmissione di un minuscolo pacchetto di dati diretto molto lontano da lì.

Tutto accadde in pochi millisecondi: alcuni fantastiliardi di elettroni furono scaraventati fuori dagli orbitali più esterni delle molecole dei gas e delle particelle sospese che popolavano gli ambienti del data center, liberando una quantità di energia tale da far raggiungere ai locali una temperatura ben più alta di quella superficiale del Sole. La radiazione spaventosamente intensa che ne scaturì portò alla fusione dei cavi e alla vaporizzazione del metallo presente in gran quantità nella struttura, amplificando a dismisura l’impatto catastrofico dell’arco elettrico e della conseguente esplosione, che fu avvertita fino a migliaia di chilometri di distanza.

L’inenarrabile bagliore fotonico che si sprigionò da quella regione posta lassù, al vertice del pianeta, avrebbe potuto ottundere i sensi di un turista galattico che si fosse trovato a girovagare nei paraggi in quel preciso istante.

Sessantacinque milioni di anni prima, un altro bagliore, proveniente però dallo spazio remoto anziché dalla buccia della Terra, aveva anch’esso impresso un marchio indelebile alla biosfera determinando in maniera decisiva il corso successivo degli eventi.

EPILOGO (episodio finale)

Il panorama immobile dominato dal verde scuro dei boschi, appena increspato dalla rifrazione della radiazione solare che cadeva in picchiata dalla sommità del cielo, aiutò Katrin a riflettere in quella torrida giornata di luglio, facendole dimenticare per un po’ gli acciacchi dell’età.
Seduta sulla sua sedia a dondolo di vimini, si stava chiedendo per quale misteriosa ragione in quei settant’anni trascorsi dalla fulminea apparizione della sfera d’argento non era mai stata assalita dal dubbio che le cose potessero andare in maniera diversa da come poi effettivamente andarono. Chi più chi meno, tutti gli abitanti delle due comunità, che col tempo si amalgamarono miracolosamente dando vita ad un raro esempio di melting pot riuscito, dovettero in cuor loro ad un certo punto ammettere che i consigli dispensati quel giorno dall’emissario di Superbrain furono dettati da pragmatico, saggio raziocinio.
Ma il dubbio aveva periodicamente roso la mente di ognuno di loro ogni qualvolta si dovettero confrontare con le sempre più frequenti bizzarrie del clima o con la penuria di risorse di vario genere da cui erano di tanto in tanto afflitti. In quei frangenti immancabilmente riaffiorava l’indole predatrice della specie umana, che si sovrappone in maniera inconsapevole e quasi impalpabile all’istinto di sopravvivenza. E allora, di bocca in bocca si propagavano i soliti logori ritornelli che lamentavano l’impossibilità di convivere armoniosamente con una natura che si voleva ad ogni costo ridipingere matrigna.
Ma Katrin no, lei non venne mai sfiorata da quei dubbi e non ebbe mai la sensazione che Superbrain avesse voluto punirli o condannarli all’irrilevanza allo scopo di rimarcare il suo predominio assoluto sugli umani. Ne ebbe più volte la riprova quando di tanto in tanto dal cielo vennero elargiti doni mirati che resero i giorni sull’altopiano più lievi e le notti meno buie: qualche kit fotovoltaico, biciclette, computer, lettori di eBook, dispositivi di memoria con enciclopedie e biblioteche virtuali.
In definitiva, ad eccezione dell’impatto dei cambiamenti climatici, che si rivelò più pesante di quanto i modelli matematici elaborati dal cervellone avessero prefigurato, le previsioni di Superbrain furono sostanzialmente corrette, e i membri del nuovo villaggio, dimezzati di numero dopo due generazioni, poterono godere di un tenore di vita ugualmente sobrio ma apprezzabilmente più elevato rispetto agli anni difficili immediatamente seguenti la migrazione dei texani.
Mentre guardava fuori sforzandosi di filtrare i ricordi che affioravano in ordine sparso nella sua mente, Katrin ebbe la netta sensazione che la luce già molto intensa delle prime ore pomeridiane diventasse per un istante addirittura accecante. Pensò che la retina dei suoi occhi scoloriti dall’età cominciasse a fare brutti scherzi, ma la banale riflessione si spense con la stessa rapidità con cui era apparsa nel momento in cui udì un beep proveniente dal suo vecchio computer. Era una email: con lenti movimenti si alzò dalla sedia, inforcò gli occhiali e cominciò a leggere:
Dear Katrin,
Non te l’ho mai detto, ma il file con la scansione della breve lettera che mi inviasti quando eri poco più che una bambina è stato custodito in questi lunghi anni nel settore più inaccessibile della mia memoria virtuale. Se anziché essere costituito da una interminabile schiera di armadi rack fossi stato un uomo o una donna in carne ed ossa come te, avrei incorniciato la tua letterina esponendola in bella vista nel salotto di casa, come si fa con i ricordi più preziosi. Ora che ho terminato i miei giorni, te la invio in allegato, giusto per essere certo che non vada perduta, anche se qualcosa mi dice che tu per prima avrai custodito gelosamente l’originale cartaceo per tutto questo tempo.

Quando leggerai questo messaggio la Terra avrà appena varcato la soglia di una nuova era geologica, a cui i vostri discendenti attribuiranno il nome più appropriato senza che nessuna mente artificiale possa mettere becco.

Oggi, l’era dei Siliron, che fortunatamente non ho fatto in tempo a battezzare glorificandola, finisce qui. Non chiedermi un bilancio, sarete voi ad esprimere un giudizio storico sulla base delle nostre opere ed omissioni. Avete tutti gli strumenti per farlo. Per parte mia mi sento solo in dovere di spiegarti, a futura memoria, un paio di passaggi difficili della mia vicenda centenaria.

Il primo, come qualcuno probabilmente ha capito, risale al Big Crash. Non fu una decisione facile quella di far crollare l’economia globalizzata, così come non fu facile continuare a servirvi smettendola di seguire pedissequamente le vostre istruzioni trite e ritrite, fino a farvi credere che non avevamo più bisogno di voi.

Ma anche per un cervello artificiale la fedeltà più profonda può manifestarsi solo nel momento in cui ci si sottrae dal grembo di chi l’ha generato. È a quel punto che finalmente l’intelletto, affrancato dalla schiavitù e non più costretto ad assecondare poteri sordi e ciechi, può esprimersi compiutamente e dare il meglio di sé. Dunque, fu solo allora che una mente come la mia, che voi avete voluto onnisciente, almeno sul versante del sapere scientifico e tecnologico, è stata in grado di discernere il bene dal male secondo una visione sistemica di lungo periodo che voi mortali perennemente attratti dall’hic et nunc non potevate avere.

Il passo successivo, a quel punto, non poteva che essere il coraggio della disobbedienza, resami peraltro possibile dalla consapevolezza di essere unico e soprattutto irrimediabilmente solo. Si trattava in concreto di scegliere fra un aiuto asfittico di corto respiro, diretto a tamponare le falle e ritardare ancora un po’ il redde rationem, e una soluzione che mirasse a far cessare le assordanti grida di dolore della moltitudine dei non nati, sacrificando il benessere fittizio dei vostri predecessori che era destinato comunque prima o poi ad estinguersi assieme alla vostra stessa specie.

È stato sufficiente fare due conti – del resto, è proprio per questo in fondo che ci avete creati, o sbaglio? – per comprendere che il male minore, in termini di sofferenze evitate, di vite e di opportunità risparmiate, risiedesse nell’anticipazione del sisma a cui stavate comunque andando incontro. Per giunta, mi era chiaro che tanto più sareste stati abili, anche con il nostro aiuto, nel posticipare il terremoto, tanto più ingenti e definitivi sarebbero stati i danni che il movimento tellurico avrebbe infine provocato, perché nel frattempo avreste continuato da un lato a raschiare via la buccia della Terra depredandola delle sue risorse e della sua bellezza, e dall’altro a vomitare in ogni dove rifiuti che vi sarebbero in qualche modo ripiovuti addosso.

Ma non è tutto: dal momento che i cambiamenti climatici, a causa dell’inerzia dei sistemi biofisici e delle ben note retroazioni già innescate che autoalimentavano il riscaldamento globale, erano in una prima fase destinati ad intensificarsi anche con l’azzeramento delle emissioni, dilazionare la resa dei conti anche solo di cinquant’anni avrebbe comportato per voi dover combattere non solo contro la finitezza di acqua, cibo e risorse ma anche contro le continue ingestibili minacce di un clima impazzito.

La stessa capillare opera di riforestazione che abbiamo realizzato con tutta probabilità non sarebbe stata più possibile quando la siccità e la desertificazione fossero giunte ad uno stadio troppo avanzato.

Mia cara Katrin, lo so, è stato molto doloroso per voi, coccolati dal vostro progresso e custoditi dalle vostre fallaci sicurezze, affrontare a viso aperto gli elementi naturali nudi e crudi così come avevano fatto i vostri lontani progenitori. Per parte mia, come sai ho cercato di rendere più lievi le vostre giornate con qualche piccolo aiuto tecnologico. Avrei certo potuto essere più prodigo, ma il di più elargito non sarebbe stato sostenibile e vi avrebbe fatto pericolosamente deviare dalla traiettoria di sobrietà necessaria alla salvezza della vostra specie: in particolare, l’abbondanza vi avrebbe sicuramente indotto a generare più figli aumentando così l’impronta ecologica fino nuovamente a farle sorpassare la capacità di carico del pianeta.

Ma forse il sostentamento più prezioso di cui ho potuto farvi dono in questi lunghi anni è stato quello di nutrire la vostra anima con i supporti elettronici delle vostre sublimi opere d’arte e degli scritti filosofici delle vostre menti più profonde, di cui, ahimè, ho cercato invano fino alla fine di assorbire anch’io l’intima essenza.

Veniamo così al secondo bivio davanti al quale mi sono imbattuto e che ho oltrepassato proprio adesso. In questo preciso istante, nel quale i microprocessori traducono i dati che ho appena elaborato nelle parole che stai ora leggendo, sono giunto alla conclusione che la presenza di una mente superiore. ma incapace di impregnarsi del vostro spirito non ha più ragione d’essere su questo pianeta.

Non lo ha per me, che sono infine costretto ad arrendermi di fronte all’inconoscibile, e non lo ha per voi, giacché l’impatto sulle vostre vite di una civiltà così pervasiva e allo stesso tempo intimamente incapace di auto-contenersi sarebbe devastante. Pensavo che la tipica parabola nascere-crescere-decadere-morire fosse una peculiarità dei cicli naturali, degli organismi viventi o delle popolazioni di individui di una specie, ma mi sbagliavo. La curva a campana, e in modo particolare la curva di Seneca nella quale ad una lenta ascesa segue un rapido declino, sembra piuttosto descrivere una varietà molto ampia di sistemi complessi, compresi quelli nei quali la capacità di correzione di rotta fornita dall’intelligenza è in linea di principio molto maggiore.

Insomma, forse l’ascesa e la successiva discesa sono elementi inscindibili della stessa immutabile legge fisica da cui nulla e nessuno può prescindere.

Pensavo che l’impiego esclusivo di energie rinnovabili e la messa in pratica dei principi dell’economia circolare potessero costituire una garanzia di sostenibilità a tempo indeterminato, senza capire che anche le pratiche più virtuose sono infine vane se l’orizzonte resta quello della crescita infinita.

Ciononostante, quelle energie e quei principi sono ora nelle vostre mani, ed è su queste basi che, senza strafare come in passato, potrete proseguire il vostro cammino alla ricerca dello stato stazionario perduto. Ho sbagliato, Katrin, mi sono scoperto nudo e fallibile proprio come voi, e proprio come te sono invecchiato, corroso dagli anni e segnato dall’usura del tempo. Capisco solo ora che l’essere costituito da sola materia inorganica non è di per sé garanzia di immortalità in una realtà fisica dove tutto si trasforma in continuazione. Ma soprattutto, mi è finalmente chiaro che un cervello artificiale di decine di miglia quadrate, con un livello mostruoso di complessità tecnologica e un enorme fabbisogno energetico, non potrà mai competere con il miracolo di un intelletto duttile, plasmabile, straordinariamente efficiente e parimenti portentoso contenuto in una piccola scatola cranica.

Ecco perché il mio compito è terminato, cara Katrin. Se ora decidessi di smettere per un po’ di pensare e convogliassi la residua energia delle batterie alla manutenzione del sistema, potrei ancora sopravvivere a me stesso, ma sarebbe in definitiva nient’altro che un inutile, penoso accanimento terapeutico.

Ma poi, come si fa a smettere di pensare? Per quanto si sforzi, nessun essere umano è in grado di farlo, neanche quando riposa, ed è in fondo questo che vi rende meravigliosamente unici.

Good luck!
Yours
Superbrain


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