per gentile concessione dell'autore Stefano Ceccarelli, il prologo e il primo episodio di un breve racconto di fantascienza "La buccia della terra", una storia ambientata in un futuro dominato da creature robotiche di ferro e di silicio ove si assiste ad un mondo trasformato dall’Intelligenza Artificiale che gestisce il pianeta. Seguiranno i prossimi giorni gli episodi successivi e il finale a sorpresa.
“Da qui, messere, si domina la valle ciò che si vede, è. Ma se l’imago è scarna al vostro occhio scendiamo a rimirarla da più in basso e planeremo in un galoppo alato entro il cratere ove gorgoglia il tempo”. In volo, Banco del Mutuo Soccorso
LA BUCCIA DELLA TERRA (parte prima)
di Stefano Ceccarelli
PROLOGO
Se è vero che tutto ciò che si vede, e quindi è, è già stato detto, scritto e raccontato, tanto vale avventurarsi nelle terre ancora non del tutto esplorate del non è, o del non è ancora, o finanche del non sarà mai. Perché anche se alcune tessere del puzzle del futuro possono già essere facilmente incasellate, l’immagine femminea che apparirà quando il sarà potrà essere declinato al presente e il tempo cesserà di gorgogliare è oggi irrimediabilmente scarna, se non del tutto indecifrabile.
Ma dopotutto non è così importante scommettere sul sorriso o sulle grida di dolore, sulla giovinezza o sulla senescenza, sulla limpidezza o sull’enigmaticità del viso della novella Gioconda, quanto provare a raccontare un non detto che, al di là della sua opinabile verosimiglianza, possa ridestare in chi legge il desiderio sopito di rimboccarsi le maniche per imbastire un futuro collettivo che non sia fondato sulla mera estrapolazione delle tendenze in atto, o peggio sulla credenza che il futuro sia una semplice replica del presente. In un mondo che sembra guidato da un cieco pilota automatico, un tale desiderio suona oggi quasi rivoluzionario.
A chi pecca di facile ottimismo, o ha fede nelle virtù taumaturgiche dell’intelligenza umana, le pagine che seguono potranno apparire incomprensibili, o finanche risultare un insopportabile affronto all’intelligenza stessa. Mentre invece è proprio l’intelletto uno dei protagonisti del racconto, nelle due forme su cui si giocheranno i destini dell’Uomo e della Terra, ovvero quello che risiede nella corteccia cerebrale umana e quello traslato dai suoi neuroni in chip di silicio senza vita.
L’altro protagonista è lo spirito creativo, di cui il genere umano si è impregnato stando a contatto con il miracolo della natura sin dall’origine della specie. Con l’allentarsi artificioso del legame ancestrale dell’Uomo con l’ambiente, lo spirito rischia di perdere poco a poco i suoi connotati innovativi, quelli che di tanto in tanto fanno deragliare la Storia dai binari morti per traghettarla verso nuovi orizzonti. Per allontanare questo rischio abbiamo bisogno ora più che mai di silenziare i nostri dispositivi elettronici, spalancare le finestre e tendere l’orecchio ad ascoltare il sordo lamento di una natura che sempre di più ci vede come un nemico che la assale con sofisticate armi di distruzione anziché come una delle sue meravigliose creature. Solo così l’anima potrà vincere la pigrizia della mente offuscata dall’assordante rumore di fondo in cui si srotolano le nostre vite.
E poi, nel racconto ci sono le ragazze e i ragazzi, che più che i protagonisti sono i veri artefici di ciò che li attende. A tutti loro, costretti a navigare a vista remando contro le avversità e gli ostacoli di ogni genere che abbiamo frapposto sul loro cammino, la mia generazione dovrebbe avere il coraggio di chiedere scusa per aver speso il proprio tempo a consumare il presente anziché a seminare il futuro.
Possiamo a questo punto finalmente scendere a rimirare da più in basso la nostra magnifica sfera rotante, con quei colori pastello che tolgono il respiro, i contorni cangianti e quelle candide spirali bianche che la avvolgono.
Ma da più in basso, talvolta, le cose si rivelano essere diverse da come appaiono da lontano.
FERRO (primo episodio)
Alle prime luci dell’alba, migliaia di automi invasero le strade di Detroit pattinando sicuri sulle loro rotelle basculanti. Incuranti del paesaggio post-apocalittico che si spalancava dinanzi ai loro occhi laser, i robot si diressero speditamente verso il luogo di raccolta. Da quando i suoi abitanti umani erano fuggiti via in cerca di cibo e risorse, la città deserta era avvolta dal silenzio, rotto di tanto in tanto dal cigolio degli infissi arrugginiti sbattuti dal vento, dallo squittire di roditori affamati o dal miagolio sinistro di gatti rinselvatichiti dall’aspetto spettrale. Ad un osservatore immaginario, l’ingresso dei robot in città avrebbe potuto richiamare alla mente le truppe trionfatrici di guerre passate nell’atto di prendere simbolicamente possesso di un centro nevralgico del territorio conteso. Ma non c’erano bandiere sventolanti né grida di giubilo ad attendere i robot quella mattina, e la quiete surreale dominante era solo leggermente scalfita da quella inedita invasione.
Giunti nel luogo prestabilito, gli automi umanoidi si fermarono, in ordine solo apparentemente sparso, in attesa del via libera da parte di Superbrain, il supercalcolatore remoto. Il segnale traghettato via etere dalle onde radio non tardò ad arrivare, annunciato dal tremolio intermittente di un’infinità di led multicolori. Come al culmine di una gravidanza isterica collettiva, dei piccoli robot esapodi simili a ragni fuoriuscirono dagli addomi panciuti degli automi, dirigendosi ballonzolando ciascuno verso la destinazione programmata.
Era trascorso poco più di un mese dal completamento della prima fase dell’operazione BackMetal, la più facile. Migliaia di tonnellate di acciaio, alluminio, rame, piombo ed altri metalli erano state recuperate con una sapiente operazione di smantellamento dei vecchi siti industriali situati nelle periferie di quella che una volta era una delle più prospere metropoli americane. La fame di materie prime della civiltà degli automi in tumultuosa crescita richiedeva che fossero messi in pratica i principi dell’economia circolare che gli umani avevano teorizzato molti decenni prima senza però andare oltre un livello di attuazione poco più che pionieristico.
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La colonizzazione della Terra da parte dei Siliron – contrazione di Silicon e Iron, tanto per ricordare gli elementi chimici alla base del loro successo – passava per la costruzione di un gran numero di individui delle infinite sottospecie, antropomorfe e non, dei nuovi dominatori del mondo: c’era dunque bisogno di tanto, tantissimo acciaio e di cospicue quantità di ciascuno degli elementi metallici dispensati dalla tavola periodica, che le obsolete miniere a cielo aperto non potevano più fornire dopo essere state depredate a mani basse e poi una dopo l’altra abbandonate con l’esaurimento dei filoni.
L’obiettivo della prima fase dell’operazione era stato quello di recuperare il ferro, l’alluminio e gli altri metalli più comuni, che costituivano l’esoscheletro dei robot: oltre alle fabbriche dismesse, l’attenzione di Superbrain si era concentrata sul vasto parco auto corroso dalla ruggine, gli aeroplani, i container, i mega-parchi di divertimenti, le scaffalature dei centri commerciali e quant’altro potesse fornire quegli elementi in abbondanza.
Il riciclo dei metalli più nobili e rari, oggetto della seconda fase dell’operazione, si dimostrò invece un obiettivo più complesso, che richiese alcune settimane di elaborazione dati da parte di Superbrain. La strategia individuata dal cervellone fu infine quella di far irrompere una schiera di robot operai nelle abitazioni lasciate incustodite dalle famiglie che avevano abbandonato le città, prelevare i dispositivi elettronici già usati dai suoi occupanti, disassemblarli, analizzarne il contenuto e recuperare i microcomponenti ricchi di metalli rari. In effetti non era quasi mai necessario separare i singoli elementi allo stato puro (operazione peraltro che avrebbe richiesto processi chimico-fisici complessi ed energivori), poiché la maggior parte dei componenti di microelettronica di cui erano costituiti i computer, gli smartphone, i tablets e tutti i dispositivi che ai bei tempi erano il fiore all’occhiello della civiltà umana potevano essere impiegati tal quali nei circuiti degli automi tecnologicamente meno avanzati.
Tutto sommato – sembrò pensare sarcastico Superbrain facendo finta di dimenticare le sue vere origini – non tutto ciò che era stato concepito dagli umani era poi così malaccio.
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