Una buona notizia e due cattive a proposito di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks. Quella buona – ottima, anzi – è che la Corte di Londra poco fa gli ha accordato la possibilità di presentare un nuovo ricorso contro l’estradizione negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni di carcere per aver diffuso 700 mila documenti riservati sulle attività militari e diplomatiche degli Usa contenenti rivelazioni su presunti crimini di guerra.
La prima cattiva notizia è che Assange non sta bene, e per questo non era in aula: come del resto era già accaduto in passato. Da cinque anni è incarcerato a Belmarsh, una prigione inglese dove sono rinchiusi terroristi e criminali che devono scontare gravi pene. Nei precedenti sette anni è rimasto confinato nell’ambasciata dell’Ecuador in Gran Bretagna. Il suo calvario è iniziato con accuse di stupro, mai effettivamente provate, da parte delle autorità svedesi.
La seconda cattiva notizia è che l’Alta Corte britannica ha deciso di concedergli la possibilità di presentare un nuovo ricorso contro l’estradizione negli Usa perché ha riconosciuto non infondate le argomentazioni della difesa sul timore di un processo non giusto oltreoceano. Non infondati i timori di subire un processo non giusto. Accade in quell’Occidente che si vanta di essere patria e baluardo dei diritti umani.