Le associazioni per il commercio equo chiedono di sottoscrivere un appello in vista delle elezioni per il Parlamento europeo. Lo faccio con piacere. La mia azione politica è sempre stata tesa difendere i diritti umani e l’ambiente. Continuerà sulla medesima strada, se vorrete eleggermi: nei settori richiamati dall’appello per il commercio equo e non solo in quelli.
Il fatto stesso che sia necessario un appello per il commercio equo segnala che abbiamo un problema, e grosso. Segnala cioè che il commercio è iniquo e, più in generale, che è iniquo l’attuale modello economico nel quale la logica del profitto può passare come un rullo compressore sulle persone e sugli ecosistemi.
La foto in cima alla pagina illustra bene questo concetto. E’ il cimitero mondiale dei vestiti situato nel deserto di Atacama, in Cile. Vi si accumulano gli abiti confezionati a basso costo nelle fabbriche-pollaio dell’Asia per rifornire i negozi di Stati Uniti ed Europa. E c’è tutto un mondo dietro le parole “fabbriche-pollaio” usate da Avvenire.
Da queste fabbriche comunque escono abiti che costano poco e che durano ancora meno, sia perché la qualità dei tessuti è quella che è sia perché i vestiti di questo tipo sono particolarmente legati alla volubilità della moda. Così, dopo essere andati dall’Asia all’Occidente, fanno anche un viaggio – stavolta come stracci – fino all’America Latina.
L’industria tessile, scrive Avvenire, impiega almeno il 20 per cento di sostanze chimiche del globo e consuma il 20 per cento dell’acqua. E infinite tonnellate di questa roba vanno a finire (e a inquinare nel deserto di Atacama, in Cile.