Il decreto nazionale fa a pugni con le norme europee. Due nostre interrogazioni ricevono risposte surreali dalla Commissione Europea
Le norme UE e italiane fanno a pugni, ma i nostri solleciti non sono state sufficienti per disboscare la giungla normativa in cui finiscono gli italiani che, per risparmiare, decidono di fare il retrofit elettrico all’auto in un altro Stato UE. Si é delineata una situazione veramente surreale.
Il retrofit elettrico consiste nel sostituire il motore a scoppio con un motore elettrico e le relative batterie e poi reimmatricolare il veicolo. Non é economicamente indolore (circa 10.000 euro, anche se il prezzo é destinato a scendere), però poi la strada é in discesa: carburante a costo irrisorio, niente emissioni dal tubo di scappamento (le emissioni legate alla produzione dell’elettricità in Europa in media sono la metà rispetto a quelle di un’auto a gasolio o a benzina), possibilità di circolare nei giorni di blocco del traffico e nelle ZTL dei centri storici.
Il retrofit elettrico consente di riciclare in modo quasi ecologico una vecchia vettura così inquinante da non poter più essere utilizzata ed evita di produrre un veicolo nuovo risparmiando quindi materia ed energia prolungando il ciclo di vita del veicolo, ovvero l’applicazione dell’economia circolare alla mobilità. L’Italia, in base al decreto che in gennaio ha finalmente reso possibile il retrofit elettrico, non riconosce automaticamente la reimmatricolazione se il kit per sostituire il motore a scoppio é diverso da quello omologato in Italia: dunque chi fa retrofittare l’auto – poniamo – in Slovenia o in Germania per spendere meno tempo, denaro e burocrazia rischia una sanzione. La Commissione Europea, in risposta alle nostre interrogazioni firmate insieme alla collega Daniela Aiuto (commissione trasporti presso il Parlamento Europeo), ammette che – salvo problemi di sicurezza – ogni Stato (Italia compresa) deve riconoscere automaticamente la reimmatricolazione effettuata in un altro Stato UE, ma contemporaneamente e ponziopilatescamente afferma che la normativa italiana va benissimo così com’é.
Sembra la versione burocratica di una commedia teatrale dell’assurdo. Ripercoriamo passo passo la vicenda dall’inizio. La nostra prima interrogazione sottolineava che non riconoscere automaticamente il retrofit effettuato in un altro Stato UE costituisce una barriera al mercato unico interno. La Commissione Europea ha risposto citando la direttiva 2007/46 sull’immatricolazione dei veicoli e puntualizzando che essa “non copre le modifiche dei veicoli omologati effettuate dopo la prima immatricolazione”. Ha sostenuto dunque che “le disposizioni nazionali in materia di retrofit dovrebbero rispettare il sistema europeo di omologazione dei veicoli riqualificati”. Il quale in sé e per sé, a quanto ci risulta, non esiste.
Dunque siamo tornati alla carica con una seconda interrogazione domandando in cosa consista questo fantomatico “sistema europeo di omologazione dei veicoli riqualificati” e se la normativa italiana lo rispetta.
Abbiamo così appreso che stavolta, per la Commissione Europea, il “sistema europeo di omologazione dei veicoli riqualificati” coincide con la direttiva 2007/46/CE citata dalla Commissione stessa nella prima risposta per sottolineare che essa riguarda solo i veicoli nuovi. La Commissione Europea ha poi ammesso che, se non emergono problemi di sicurezza, quando uno Stato membro consente la reimmatricolazione di un’auto dopo il retrofit “le altre autorità nazionali devono riconoscere la conformità del veicolo modificato”. Traduzione: l’Italia deve riconoscere l’immatricolazione dei veicoli retrofittati in Slovenia, Germania eccetera con kit diversi da quello omologato in Italia. Tuttavia secondo la Commissione Europea la normativa italiana, che non contiene questo riconoscimento, “è da considerarsi appropriata”.
L’unica certezza, a questo punto, é l’incertezza del diritto.
Foto: il mitico cinquino elettrico retrofittato di di Pietro Cambi