Oggi, giovedì 9 maggio, è la Giornata dell’Europa nella quale l’UE dovrebbe celebrare l’unità e la pace (sic) dell’Europa stessa. Una pace che una Unione Europea guerrafondaia ha di fatto rinnegato fra i suoi valori.
Nell’immagine in alto c’è il titolo del mio articolo scritto un mesetto fa per Verde Ambiente, la rivista di Vas Ambiente. Potete scaricare qui il pdf, ricco anche di altri articoli assai interessanti. Ho voluto premettere al testo questo motto: “Non si tratta di perdere la guerra, si tratta di non perdere la pace”. L’articolo è riportato per intero a seguire. In questa sede, vi aggiungo alcuni link.
“La prima volta che lessi la comunicazione di Ursula von der Leyen sul Green Deal dell’Unione europea, rimasi di stucco per quello che vi trovai scritto: transizione ecologica, uso efficiente delle risorse, energia pulita, economia ed industria circolare, sistema alimentare sano, riforestazione, ripristino della biodiversità, inquinamento zero, neutralità climatica al 2050 e il principio cardine del non arrecare danni all’ambiente.
Non che quel primo testo sul Green Deal fosse perfetto. Permaneva comunque l’idea di una crescita economica perpetua con l’affidamento quasi religioso alle politiche di decoupling.
Il necessario nuovo corso verso una economia di stato stazionario non era presente neanche in prospettiva; un intero capitolo era dedicato alla cattura e lo stoccaggio geologico della CO2: una parte del testo davvero difficile da digerire, alla quale tuttavia non diedi particolare importanza. Erano oltre 10 anni che ricorreva questa soluzione ipotetica, ma non se ne era mai fatto nulla di concreto. Valutai quindi nel complesso il testo come estremamente sorprendente e assai positivo.
Tuttavia, non ho mai creduto fino in fondo che nelle alte sfere dell’Unione Europea fossero stati tutti improvvisamente folgorati sulla via di Greta Thunberg. Giudicai tale cambio di impostazione politica come un doveroso, seppur tardivo, atto strategico di autonomia energetica dalla dipendenza geopolitica dalla importazione di idrocarburi e l’avvio di un corso politico di necessaria simbiosi commerciale ed industriale con la Cina, essendo questo necessario per le forniture di fotovoltaico, sistemi di accumulo e componenti elettronici irrinunciabili per la realizzazione di sistema energetico e della mobilità decarbonizzato.
Con la guerra in corso alle porte dell’Europa il Green Deal ha progressivamente cominciato a cambiare direzione, perdendo di forza e di ambizione.
Nelle proposte legislative della Commissione pubblicate successivamente allo scoppio del conflitto, o nell’iter di quelle già in corso, sono sempre più potentemente entrati temi alieni alla transizione energetica, come il nucleare e l’importanza del settore dell’aerospazio, strettamente connesso alla difesa, ovvero al riarmo. Le norme più ambiziose riguardanti le politiche verdi sono state via via annacquate o addirittura trasformate, anche per quanto riguarda gli stanziamenti finanziari.
La decarbonizzazione è diventata autonomia strategica di differenziazione energetica, secondo il principio della neutralità tecnologica, la resilienza climatica è diventata resilienza militare, la ripresa economica è diventata ripresa della produzione e dell’acquisto di armamenti; e infine la contabilizzazione del rispetto degli obiettivi climatici truccata con la narrazione di un irrinunciabile (e costosissimo) sequestro e stoccaggio geologico del carbonio con una rete trasportistica UE ed extra UE dedicata da realizzare, incluse navi e CO2dotti.
Alla dipendenza dal gas russo trasportato da gasdotti si è sostituita la dipendenza dal gas liquefatto consegnato via nave, ben più costoso.
Poco importa se il GNL che arriva in Europa con le navi gasiere comporti alti consumi energetici, e quindi emissioni aggiuntive durante la liquefazione e il trasporto.
Se è un gas prodotto negli USA – e molto di quello che l’Europa acquista oggi lo è – essendo estratto tramite fracking, esso comporta anche alte emissioni di metano. Solo per citare gli studi più recenti, il GNL statunitense ha un impatto sul clima superiore di almeno il 12,3% rispetto al carbone [edit: nel frattempo lo studioso ha rifatto i calcoli; l’impatto è diventato superiore almeno del 28% rispetto al carbone].
Contemporaneamente la avversione a tutto ciò che è Green viene alimentata dalle fake news e dalla disinformazione a ogni livello, nei media tradizionali, nei blog, nei social e nei sistemi di messaggistica.
Una larga percentuale di cittadini e di attori produttivi hanno progressivamente assunto, similarmente al rifiuto delle più elementari norme di precauzione sanitaria come le mascherine, un atteggiamento irrazionale di rigetto per tutto ciò che abbia a che fare con la sostenibilità.
La sottocultura trumpiana con la sua avversione al metodo scientifico ha portato alla crescita dei negazionismi climatici e alla diffusione di movimenti antiecologisti strumentali al mantenimento, sia del vecchio modello industriale, che del consenso elettorale di alcune aree politiche, le quali riversano la colpa della crisi economica agli ambientalisti e al Green Deal.
Questo a dispetto del fatto documentale ed evidente che la transizione ecologica non sia nemmeno iniziata; e che determinati scenari di crisi e declino erano previsti proprio dal Rapporto sui limiti dello sviluppo del 1972, un testo fondativo dell’ecologismo scientifico, ignorato da generazioni di politici e di partiti che tentano oggi di sottrarsi alle loro gravissime responsabilità storiche.
𝐂𝐨𝐧𝐜𝐥𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐢
Il Green Deal che sembrava aprire orizzonti luminosi ha quindi oggi assunto un’aura assai fosca. Sono numerosi gli ultimi provvedimenti legislativi e finanziari riguardanti le politiche energetiche ed industriali che a dispetto dei nomi che riportano, nascondono nelle pieghe dei testi, quando non proprio in maniera esplicita, disposizioni assolutamente contraddittorie e fuorvianti rispetto ad altre norme: è questo un new deal dual use [cioè adatto sia a fini civili sia a fini militari, ndr] di war washing istituzionalizzato, dal doppio standard e dalla doppia etica, dove viene ricoltivato mutatis mutandis il business as usual delle compagnie energetiche, dell’interesse finanziario e dell’industria bellica.
La priorità della decarbonizzazione viene sacrificata alla presunta necessità di riorganizzare l’UE e di darle un assetto economico e geopolitico, a parole difensivo, ma che risulta ostile: la circolarità dell’economia e l’uso efficiente delle risorse cessano di rappresentare un obiettivo in sé e diventano invece la cornice di un’economia che improvvisamente vuole evitare importazioni provenienti da alcuni Paesi considerati inaffidabili perché parte di un blocco economico e geopolitico differente da quello anglo-occidentale della Nato.
Eppure, la dipendenza dell’UE dalle importazioni di energia, materie prime, prodotti industriali costituisce l’effetto di pluridecennali politiche frutto di un assunto persistente secondo il quale il resto del mondo sarebbe sempre stato disposto a rifornirci di tutto a prezzo e nelle quantità da noi desiderate.
Con lo scoppio della guerra, i medesimi devoti a quel dogma neocoloniale hanno preso a lamentarsi della fragilità europea che loro stessi hanno causato, conseguente all’altro assunto fallimentare della globalizzazione e della mano invisibile del mercato liberalizzato, per cui era lecito delocalizzare ove il profitto fosse maggiore; e che produrre e investire in Europa non fosse necessario, né conveniente, anche a costo di deindustrializzarla.
La Commissione europea e non solo, ha cominciato nella ultima parte della legislatura a usare parole nuove che nel lessico europeo erano prima bandite: si parla e si scrive di fondi di sovranità europea, autonomia strategica dell’UE. Questo non sarebbe di per sé un atteggiamento insano se queste nuove parole d’ordine non fossero pronunciate oggi insieme a pro- clami bellici, ma qualche anno fa, in un contesto di volontà politica diretta alla costruzione previdente, pacifica e consensuale di un nuovo assetto multipolare paritario con accordi bilaterali con i Paesi fornitori di asset energetici, materie prime e componenti strategici.
Se vogliamo la pace, dovremmo preparare la pace, non la guerra come invece l’incauto Presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha dichiarato a fine marzo. Di armi in Europa ne abbiamo fin troppe e spendiamo per esse in numeri assoluti molto più che la Russia.
Se il compito della sostenibilità è quello di garantire un mondo possibile alle future generazioni, certo è che pompare la CO2 sottoterra, costruire nuove centrali nucleari, reindustriarsi per la guerra è quanto di più lontano dalla sostenibilità ecologica e dal Green Deal: i conflitti bellici, potenzialmente nucleari, rappresentano l’attività umana non solo eticamente più ripugnante, ma assolutamente anche più entropica e distruttiva delle risorse umane ed ambientali.